«La bulimia, come un tumore all’anima. Ma l’adolescente di ‘T’appartengo’ è sempre qui»- Corriere.it


di Jonathan Bazzi

Intervista ad Ambra Angiolini, ex teen idol, oggi attrice rigorosa e pluripremiata: «Prima pensavo sempre a difendere me stessa e facevo casino. Ora indosso le mie ferite: sono più chic dei gioielli. Anch’io mi sono scontrata coi conformisti»


Avvicinarsi ad Ambra Angiolini significa intercettare qualcosa
di molto diverso da ciò le è stato proiettato addosso. Ex teen idol venerata e presa di mira, oggi è attrice rigorosa e pluripremiata che rivendica scelte e ponderate metamorfosi. Ma diversa lo è soprattutto per l’inarginabile bisogno di concretezza che l’ha accompagnata sin dai tempi di Non è la Rai , sebbene pochi l’abbiano capito.

Forse da qui passa il balzo, o meglio la tenuta prodigiosa con la quale si è salvata dal destino difficile riservato a tante star adolescenti: alle semplici immagini, alla superficie delle cose, nonostante molti abbiano pensato che quello fosse il suo regno, Ambra non ha mai creduto. E le sue perlustrazioni nelle profondità di quel groviglio che alcuni chiamano “anima” tracciano una storia ben diversa da quella che il chiacchiericcio mediatico negli anni ha imbastito per lei. Una storia che ha al centro la vocazione al decidere da sé, il potere dei no e il gusto per le fortune che ti sei saputa meritare. Fino a fine aprile è in tournée con
Il nodo

, regia di Serena Sinigaglia, che racconta il bullismo.

«Ha un tono tragicomico che mi ha colpita: l’ambivalenza fa parte della vita eppure al cinema o a teatro c’è chi la trova disturbante. Spesso ci succede di ridere quando si dovrebbe piangere, e viceversa. Se anche l’arte viene costretta a dover rassicurare — censurare le parole, cambiarle nei libri — rischiamo di non sentire più niente. A teatro io mi sento normale: lì quello che sono non è un problema, e anche questo ha molto a che fare col giudizio e il bullismo».

Da adolescente presa di mira da critici e femministe ad attrice stimata.

«Ho iniziato senza capirci niente. Volevo ballare: i miei lavoravano tanto, la danza era un modo per non stare in strada. Quando il successo è esploso mi tormentava il fatto di essere famosa senza sapere perché. Non ero la più brava, né la più bella: non mi sentivo speciale. Desideravo un mestiere, qualcosa che avesse a che fare con una scelta mia. Sembravo incazzata con tutti, ma lo ero con me stessa. Quando la televisione mi ha voltato le spalle invece che disperarmi mi sono detta: “Ora posso cercarmi un lavoro”».

Da dove ha iniziato?

«Un programma notturno su Radio 2. Facevo interviste e sono stata trascinata nel vortice del teatro indipendente. Ho conosciuto così la mia maestra storica, Stefania De Santis: mi ha fatto incontrare i testi importanti, che ho scalato a fatica. Poi ho dovuto fare i conti con quello che gli altri vedevano di me, e c’è voluto tempo. Quando faccio date come quella di oggi a Carpi, col teatro pieno, piango».

Lei è stata una teen idol che si è salvata dalla sorte a cui tanti teen idol vanno incontro.

«Ho sempre avuto la sensazione di poter aggiustare le cose. Sono rimasta senza lavoro per anni ma non ho mai perso il bisogno di darmi da fare. Anche se ciò che mi aveva resa famosa all’inizio poi si era spento. Ho una famiglia solida alle spalle, che è rimasta sempre lì, col suo lavoro, l’azienda alimentare di papà. Le persone che si fanno il culo mi affascinano. Essere famosi non è un mestiere, dev’essere il risultato del lavoro che fai».

«VORREI RIUSCIRE A VIVERE DELLE MIE IDEE. CI STO GIÀ LAVORANDO. VORREI ESSERE D’AIUTO A CHI VUOLE INIZIARE QUESTO LAVORO. MA ANCHE DEDICARMI ALLA REGIA TEATRALE E SCRIVERE PER LA TV»

Come ha imparato a proteggersi dai risvolti dolorosi della fama?

«Da qualche anno metto in atto una scissione: ho capito l’importanza del silenzio quando sembra che parlino di me e invece stanno mettendo in piazza un’idea di me. Così come lo studente bullizzato a scuola non deve credere al motivo per cui viene bullizzato: se dai credito a quella roba perdi di vista te stesso, e a quel punto di te chiunque fa carne da macello».

Le critiche all’inizio furono violentissime.

«Della prima ricordo anche le virgole: “La ragazzina esce dalla porta tutta palme e piscina e, con mossa navigata, si siede sulla poltrona come la più risolta delle Lolite”. Io Lolita neanche l’avevo letto. Lì per lì piangi, sei inconsolabile: da piccola è normale. Poi ho recuperato il romanzo di Nabokov e ho detto: “Fermi tutti però: qua stanno dicendo un’altra cosa”. E quella cosa non era giusta, non ero io. In quegli attacchi c’era un problema di cultura, ignoranza».

L’hanno cambiata?

«Col tempo ho smesso di pensare solo a me stessa: ho cercato di fare delle scelte che smuovessero qualcosa nelle persone. Solo così ho capito che questo lavoro poteva andare avanti, crescere con me. Prima pensavo a difendere me stessa e facevo casino: replicare a una bugia non fa altro che amplificarla».

Un ruolo importante come attrice?

«Durante la separazione da Francesco (Renga, il cantante da cui Ambra ha avuto Jolanda e Leonardo, ndr ), un lutto vero, fu soprattutto Michele Placido a offrirmi la chiave: nel suo film Sette minuti ho potuto far vivere la mia rabbia. Sono fiera di quel personaggio, che ha la faccia disperata che avevo in quel periodo: per il nervoso mi venivano continui sfoghi cutanei».

In
Saturno contro
Ozpetek fa dire al suo personaggio: «Esagero sempre, è il mio unico pregio».

«Con me Ferzan ha girato più un documentario che un film: ha preso da me tutto quello che non avevo mai pensato di poter usare. Mi ha detto: “Ma tu con ‘sta roba devi lavorare, non con tutto il resto”. Ho imparato che potevo essere interessante usando ciò che avevo sempre pensato fosse da nascondere. Una svolta, e non per i premi: oggi so che posso trasformare cose che altrimenti resterebbero lì a mangiarmi viva».

Sin da
Non è la Rai
ha suscitato l’affetto della comunità LGBT.

«È la mia famiglia: non mi piace etichettare, ma nel tempo ho trovato lì i miei affetti più importanti. All’inizio ero piccola: parlavamo d’amore e mi sembrava normale. Poi ho iniziato a lavorare al Mario Mieli e ho visto i ragazzi rifiutati dalle famiglie, soli, senza una casa. Amare una persona non può costringerti all’esilio. In un modo molto diverso anch’io ho dovuto spesso scontrarmi col conformismo».

Un’alleanza che passa per l’esperienza del pregiudizio?

«Quando ero senza lavoro, ed ero attiva al Mario Mieli, mi capitò un provino in inglese per il ruolo di Maria, la madre di Gesù. Il regista non sapeva chi fossi: lo faccio e chiede di rivedermi. Poi annullano tutto: mi dicono che quel ruolo in Italia non potevo interpretarlo. Nella mia ingenuità non capii, ma di fatto mi stavano dando della poco di buono. Mi richiamarono di nuovo: “Ci dispiace, un ruolo te lo vogliamo dare lo stesso”. E mi hanno fatto fare Salomè».

Alcuni incontri di quegli anni sono diventati i suoi migliori amici.

«Con loro mi sento al sicuro: so che quando uso l’ironia per cantare T’appartengo vengo presa sul serio esattamente come quando sono in teatro coi testi importanti. Sono persone interessate ai vari livelli di umanità, non si fanno distrarre dai giudizi facili. Se essere queer vuol dire questo allora lo sono anch’io. Alle mie amiche drag queen — arte che amo — dico sempre che quando sono nata il primo vagito l’avrò fatto in playback».

In Italia le difficoltà sono ancora tante.

«L’omofobia non ha senso: è la cattiveria ad essere contro natura, è l’essere accaniti contro chi è felice che è sbagliato. Trovare il mostro quando il mostro non c’è è una forma di perversione. Detto questo faccio fatica con slogan e polemiche, così come vedo dei rischi in certe strumentalizzazioni della body positivity».

Cosa non la convince?

«Penso sia importante aver denunciato una realtà che proponeva un solo modello. Il pericolo adesso è che la questione diventi un fatto commerciale. Quando entrano gli interessi economici arriva l’obbligo a manifestarla sempre. Come stai in quel corpo? È la domanda che mi faccio e faccio agli altri. Restare incastrati a nostra volta nell’ossessione per l’immagine, anche se in modo rovesciato, non trasforma le cose. Vorrei che l’immagine fosse una parte del racconto, non ciò che ci definisce. Qualcosa che caratterizza ma non categorizza».

«DA PICCOLA HO VISTO UN FILM IN CUI UNA RAGAZZA A UNA FESTA SUBIVA UNA CRISI DI PANICO: PRENDEVA A MANGIARE QUALSIASI COSA DAL BUFFET, POI CORREVA IN BAGNO A VOMITARE… QUELLA SCENA MI È ENTRATA IN TESTA»

Torna spesso la diffidenza verso l’immagine.

«È distraente, ed è quella sulla quale si trovano talmente tante ferite che approfittarsene, per chi vuole speculare, è facilissimo».

Nel libro
InFame
ha raccontato dei problemi di bulimia.

«Da piccola vidi un film in cui c’era una ragazza a una festa in cui tutti erano benvestiti e si divertivano. Le veniva una crisi di panico: prendeva a mangiare qualsiasi cosa dal buffet, poi correva in bagno a vomitare tutto. Quella scena mi è entrata in testa e quando ho cominciato a non stare bene l’ho copiata. La bulimia ha reso il mio corpo colpevole di essere diventato diverso rispetto a quello con cui ero diventata famosa. Un giorno in aeroporto vedo una rivista con la mia faccia. Titolo: “Ambra scoppia di successo”, e “scoppia” era tra virgolette. Poi vado in autogrill e la signora delle pulizie mi dice: “Ma va, mica sei grassa”. Ho capito che gli effetti di questa situazione erano sotto gli occhi di tutti».

Come ha reagito?

«Alla gente interessava solo che tornassi magra, mentre io stavo facendo i conti con la voragine che avevo dentro. Allora ho chiuso gli occhi: non potevo farmi distrarre da quella roba, non potevo dare retta a loro prima di aver capito cosa mi stesse capitando».

Oggi è impegnata in prima persona nei centri specializzati.

«È come avere un tumore all’anima. Non c’è una cura immediata, uguale per tutti: è un processo personale che va attraversato fino in fondo. Se ti anestetizzi la malattia diventa te e non te la levi più di dosso. Alle ragazze dico: “Cominciate a sfilarvela e a tenervela accanto. Farà un pezzo di strada con voi ma a un certo punto le lascerete la mano e se ne andrà”».

Le famiglie che reazioni hanno?

«Sono tutte disperate: vogliono rendersi utili ma non sanno come».

I suoi come l’hanno aiutata?

«Mia madre mi lasciava bigliettini, Post-it ad altezza vomito. O delle canzoni. Lì per lì mi facevano sentire in colpa, poi è stato importante sentire che non c’era giudizio, che per lei io non ero la mia malattia. Ho cominciato a pensare che la bulimia fosse qualcosa da cui potevo allontanarmi».

«JOLANDA HA FATTO DA SOLA IL VIDEO IN CUI RISPONDE AGLI HATER: NON LE HO DETTO HAI FATTO BENE O MALE, MA SOLO CHE, SE IL MOTIVO DI PARTENZA PER LEI ERA GIUSTO, DOVEVA STARE SERENA»

La guarigione è passata anche per la nascita di sua figlia.

«Jolanda ha riempito un vuoto. Quando me lo sono trovata dentro la pancia ho sentito che quel pezzo d’amore che cercavo ovunque in realtà era dentro di me. Questa però è solo la mia storia: non è che fare figli salvi dai disturbi alimentari».

Qualche mese fa è diventato virale un video in cui Jolanda rispondeva agli hater.

«Ha fatto tutto da sola. Non le ho detto hai fatto bene o male, ma solo che, se il motivo di partenza per lei era giusto, doveva stare serena, qualunque fossero state le reazioni. Coi miei figli preferisco avere paura ma vedere cosa scelgono in libertà: così conosco davvero chi sono, e non solo quello che vogliono mostrarmi. Io, da figlia, quell’errore l’ho fatto».

Un’intuizione arrivata col tempo che consegnerebbe alla ragazzina degli anni ‘90?

«Non devo dirle niente perché non ho mai smesso di essere quella ragazzina. Anzi credo che molte delle mie intuizioni migliori siano merito suo. Non è che solo gli altri dicono: “Giura!”, ogni tanto me lo dico anche da sola. E adesso lo trovo liberatorio e tenerissimo. L’adolescente di T’appartengo è sempre qui, con tutte le cose giuste o sbagliate che sente. È come il Mini-Me di Austin Powers: mi rende sempre coi lavori in corso, ma sto in piedi così».

Un sogno professionale per il futuro?

«Vorrei riuscire a vivere delle mie idee. Essere d’aiuto a chi vuole iniziare questo lavoro. Mi piacerebbe anche dedicarmi alla regia teatrale e scrivere per la tv: rientrare nel mio mondo emancipandomi dal vincolo della faccia, del corpo. In un’età più matura spero che le mie idee prendano il sopravvento. Sto lavorando perché accada».

Un libro importante?

« La signorina Else di Schnitzler. Me lo regalò Peppi Nocera, mio autore storico, quando ero ancora piccola. Il monologo interiore della protagonista, l’ossessione del non macchiarsi, del decidere della propria dignità, mi ha acceso un enorme “no” nella testa. Un bisogno di iniziare a dire di no».

A cosa?

«Ai lavori sbagliati, a una storia che ti sta massacrando, ai ricatti morali. Il “no” è diventato il potere più grande per diventare me stessa. Un altro libro importante è stato Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, che ho regalato anche a mia figlia. È parte di un percorso che ho fatto di emancipazione e autodeterminazione».

A che punto è quel percorso?

«Sono una nata col graffio dell’orso: quella cosa non si rimargina. Ma le mie ferite le porto anche sui red carpet, le trovo più chic di tanti gioielli».

25 marzo 2023 (modifica il 25 marzo 2023 | 07:40)



Fonte: https://www.corriere.it/sette/incontri/23_marzo_25/ambra-angiolini-intervista2-4097ddf8-c7fe-11ed-b48b-1072850ccecb.shtml

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