Olimpiadi: Lorenzo di bronzo. Bellezza uber alles
E adesso come la mettiamo? Tutti sul carro, certo. Ma fino a qualche mese fa, Lorenzo Musetti per quelli preparati e pure spocchiosi era solo l’ennesima promessa disattesa, uno destinato a recitare la parte della meteora. Sì, lo dicevano davvero. Fortunatamente, noi che di Lollo siamo perdutamente innamorati da sempre, non abbiamo mollato la trincea, nemmeno quando per ritrovare sé stesso annaspava nel pantano dei Challenger e perdendo pure. E oggi la sua gioia è anche la nostra.
Quella per un traguardo speciale, il bronzo olimpico, e che la vittoria contro un volitivo Auger-Aliassime ha reso possibile. Vero, chi fa del tennis una delle ragioni di vita fatica un po’ a calarsi nella anomala dinamica olimpica, nella quale non è detto che chi perda torni subito a casa. A noi, infatti, la sconfitta contro uno dei peggiori Djokovic di sempre leva ancora il sonno e l’idea di una seconda chance non è tipicamente nelle nostre corde. Ma c’è e ci vuole bravura per sfruttarla. Cosi, Musetti si è dotato di una versione equidistante dai suoi poli antitetici, meraviglia e disastro, e tanto è bastato per imporre la legge della bellezza sul canadese che, peraltro, con i tempi che corrono va anch’esso ascritto alla cerchia dei talentuosi.
Tre set sulle montagne russe hanno finito per premiare l’azzurro, che dopo aver ceduto di schianto nel secondo set sembrava destinato a morte certa. Invece no, perché Musetti in queste ultime settimane ha fatto un deciso salto in avanti sulla strada della maturazione tennistica e, adesso, non è più un parziale sciagurato ad estrometterlo dal match. Nell’attualità, Lollo si gioca alla morte fino all’ultimo quindici, finché ce n’è, come solo i grandi di questo sport possono vantare.
Senza né Sinner né Berrettini, Musetti si è caricato sulle spalle la baracca azzurra e con talento, che non manca mai, e ostinazione ha dato all’Italia una medaglia preziosa perché mai vista in ambito cinque cerchi dai tempi dimostrativi di Paolino Canè. Per la precisione, quarant’anni fa. Parlando di lui, non è facile far comprendere ai meno avvezzi come sia difficile nel tennis vincere alla Musetti. Quindi di varietà e improvvisazione, o genialità che dir si voglia; in un periodo nel quale sono sempre le difese sparagnine a far sollevare i trofei. Ciò perché saper fare tante cose è un limite, oltre che un pruriginoso paradosso della disciplina che fu di Bill Tilden.
La psiche si fa inesorabilmente maledetta quando al corpo è richiesto di stare invischiato in un perimetro recintato con annessa conta dei punti e non c’è niente di peggio di pensare più del lecito per esacerbare alla potenza enne la situazione di disagio. Ma pensare poco, quando ad ogni colpo ti si presenta un ventaglio inesausto di opzioni come accade a Lorenzo, è pressoché impossibile. Ecco che se vincere è di per sé difficile, la strada dell’azzurro è ai limiti dello sbarramento. Ma quando i tasselli del puzzle trovano tutti la giusta collocazione significa una cosa: tirannia del talento. Il motivo per il quale ha senso aver speso gran parte dei nostri anni migliori inseguendo una pallina da tennis.
Eravamo arrabbiati dopo la disfatta in semifinale, dove un Musetti troppo brutto per essere vero aveva spianato la corsa ad un Djokovic che, ad essere buoni, ha giocato con metà del suo potenziale. Perché, non lo si nega, le prestazioni contro Fritz e contro Zverev suggerivano ben altro entusiasmo. Tuttavia, in buona parte ci siamo rifatti, perché a queste latitudini financo il tennis celebra il terzo arrivato e una medaglia, per di più a Parigi, val bene una messa. Quindi, astenersi schizzinosi e voltagabbana.
Musetti non è tifo, è religione. Con i suoi dogmi, tra i quali uno in particolare ci rappresenta dalla testa ai piedi: la bellezza prima di tutto. A Lorenzo il Magnifico, e ora pure medagliato, l’imperitura docenza. A noi la soddisfazione del palato.
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